Il Rio Mogoro e la diga

Il bacino del Rio Mogoro è quasi totalmente inserito nel territorio della Marmilla. Morfologicamente la zona è dominata a nord-ovest dal Monte Arci e a nord dalle propaggini meridionali del Pranu Santa Lucia ( territorio di Usellus). Ad est lo spartiacque corre per qualche chilometro sulla Giara di Gesturi, ad ovest le forme sono quelle piane a terrazzate del Campidano. Il Rio Mogoro trovava un tempo sbocco nello stagno di Sassu, oggi completamente bonificato. Attualmente, essendo stato  modificato il suo corso nei pressi di Uras, le sue acque si gettano nello stagno di San Giovanni, nei pressi di Marceddì. Il corso d’acqua trae origine dalla confluenza del Rio Mannu con il Rio Flumineddu. L’asta principale del Riu Mannu nasce alle falde del Pranu Argiolas, ad ovest di Usellus, e riceve il contributo dei corsi di acqua provenienti da Pranu S.Lucia e dal versante orientale del Monte Arci. Il suo percorso si snoda prevalentemente in direzione nord-sud, sfiorando gli abitati di Zeppara, Curcuris, Simala, Gonnoscodina e Gonnostramatza. Il Rio Flumineddu nasce dal versante sud- orientale del Monte Arci alimentato dalle numerose sorgenti ivi presenti. I rigagnoli che li si formano convergono nel Riu Luccus, primo nome assunto dal Flumineddu, e sono caratterizzati da alvei stretti ed incassati. Avvenuta la confluenza tra il Mannu e il Flumineddu, in località Narboni Mannu, il Rio Mogoro che così si origina, si dirige verso la pianura del Campidano. Nel territorio di Uras riceve le acque dei ruscelli provenienti, con decorsi quasi paralleli dal Monte Arci, che vengono fatti convogliare nel cosiddetto “Canale delle Acque Alte”, importante affluente.
Il corso del fiume è interrotto da una diga, uno sbarramento artificiale situato in località Santa Lucia. Essa si trova in una posizione strategica per poter essere utilizzata come invaso di acque da destinare all’uso irriguo e potabile.Si tratta di una diga a gravità, alta 28,80 metri e lunga 310 metri, la cui capacità è di 11,63 milioni di m³.
E’ stata realizzata, durante il periodo fascista, qualche chilometro dopo la confluenza del Rio Mannu con il Rio Flumineddu, in una valle compresa tra il rilievo di nuraghe Arrubiu (225m.) e il nuraghe Cuccurada (119 m.).
I lavori per la sua costruzione (1931-1933) si ritennero necessari per evitare che le disastrose piene del fiume, che periodicamente esondava, invadessero le campagne circostanti e le aree vallive di Terralba, Uras, e Arcidano, distruggendo così i raccolti e provocando preoccupazione fra i contadini. Particolarmente catastrofica fu la piena del 1904, quando le piogge torrenziali ingrossarono a dismisura il fiume, che minacciò di inondare l’abitato di Terralba. In quegli anni l’Ing.Angelo Omodeo, che ha dato il nome all’omonimo lago, ideatore della diga di Santa Chiara(1923) sul Tirso, ricevette da parte della S.B.S. (società bonifiche sarde) l’incarico di studiare un progetto di risanamento della piana di Terralba nell’ambito di un piano più vasto di trasformazione dell’assetto agrario della Sardegna. La costruzione dello sbarramento fu osteggiata dai proprietari (40 circa) dei terreni limitrofi al fiume i quali credevano, che con la sua costruzione, i terreni non potessero essere più arati e coltivati. Ebbero modo, in un secondo tempo, di ricredersi visti i risultati positivi della produzione ortofrutticola: il fiume infatti, in inverno inondava i campi con le sue piene ma poi lasciava il suo limo come fertilizzante. La direzione dei lavori fu affidata all’Ing.Angelo Mesirca che aveva collaborato anche per l’edificazione di Mussolinia, l’odierna Arborea. Furono chiamati al lavoro disoccupati mogoresi ed altri operai sardi ma anche maestranze del continente, che alloggiavano nelle immediate vicinanze del cantiere in modeste capanne. Nei pressi della diga sono presenti ancora oggi: la casa del custode, la cava da cui venivano prelevati i massi di basalto e trachite necessari per la costruzione e i ruderi dei magazzinieri che servivano come deposito di materiali. Per il trasporto dei massi si usava un trenino con tanti piccoli carrelli che si spostavano dalla collina alla valle e viceversa, dove i massi venivano lavorati dagli scalpellini e sistemati dagli operai, mentre per il prelievo della sabbia venivano utilizzati i carri a buoi che la trasportavano dalle campagne di “Pauli Azzuvau”. Era questa una estesa palude, ormai scomparsa, di cui si conserva il ricordo nella memoria dei più anziani e nella toponomastica del territorio.